Pubblicato   da     www.cronologia.it febbraio 2008.                        HOME          


CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO
.

LE BATTAGLIE INCONCLUDENTI
DI UNA GUERRA METAFISICA

 

Prof. Giovanni De Sio Cesari

( www.giovannidesio.it

INDICE:
guerre immotivate - conflitto delle ragioni - la vittoria impossibile - battaglie inutili - l’oggetto del contendere - il conflitto religioso - domande senza risposta - prospettive

 

GUERRE IMMOTIVATE

Nella storia abbiamo tanti conflitti: le guerre vengono decise in battaglie più o meno grandi: ci sono vincitori e vinti. A volte i conflitti sono totali: chi perde si arrende al vincitore e aspetta semplicemente le sue decisioni: ad esempio, la Germania nel Seconda Guerra Mondiale. Più spesso invece il conflitto è limitato a particolari questioni: chi perde lascia al vincitore l’oggetto del contendere per evitare danni maggiori, il vincitore si mostra in genere moderato per non rischiare nuovamente l’incerta fortuna delle armi: ad esempio nel 1905 la Russia, sconfitta dal Giappone rinunciò alla sua influenza sulla Manciuria e il Giappone si accontentò di un risultato più che altro simbolico.

Ma il conflitto che oppone Arabi ed Israeliani pare avere caratteri del tutto peculiari: le parti si affrontano in guerre e guerriglie che si succedono incessantemente: il conflitto a tratti sembra sopito per poi riaccendersi nuovamente. Soprattutto però pare che non importa chi vinca e chi perda: si aspetta semplicemente la prossima battaglia. Il conflitto continua implacabile passa da una generazione all’altra, siamo ormai alla terza generazione, i soldati di oggi combattono la stessa guerra dei loro nonni.

Le catastrofi (nakba, come dicono gli arabi) si succedono alle catastrofi: il popolo arabo palestinese vive spesso ai limiti della sopravvivenza, nell’inferno di Gaza o nei campi miserabili nel Libano, gli Israeliani d’altra parte non riescono a trovare una situazioni di pace, di sicurezza, di normalità.

Tutto il mondo d’altra parte è preoccupato per le inevitabili conseguenze del conflitto in un’area instabile e ricca di risorse petrolifere come il Medio Oriente e propone incessantemente piani di pace che regolarmente restano nel lungo libro delle buone intenzioni.

Eppure la cosa che pare ancora più incredibile è che la soluzione è chiaramente sotto gli occhi di tutti: occorre semplicemente stabilire due stati autonomi e sovrani.
Il paradosso, quindi, è che esiste una guerra che continua sempre, comunque finiscano le battaglie, per un motivo che in realtà non esiste perchè la soluzione è obbligata è inevitabile.

Il fine di questo lavoro è cercare di analizzare i motivi di una situazione cosi insolita, cosi tragicamente insolita.

 


CONFLITTO DELLE RAGIONI


Il conflitto è nato dal fatto che un numero ingente di ebrei si trasferì in Palestina, prima a piccoli gruppi e poi in modo più compatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, stabilendosi in una terra abitata da Arabi, mussulmani e cristiani, con piccolissime minoranze di Ebrei e, quindi, nel '47 riuscì a far nascere che in quei luoghi un proprio stato autonomo.

Il conflitto palestinese nasce pertanto da un fatto che non ha precedenti storici in tempi moderni e quindi mancano delle regole generalmente riconosciute che possono ragionevolmente essere applicate.
Si riscontra comunemente nei conflitti che ciascuno ha sempre (o quasi sempre )le sue ragioni) e dal suo punto di vista sente di aver ragione: ma nel conflitto palestinese vi è una reale impossibilità di trovare un qualsiasi criterio che possa servire di base per dirimere la questione.

Indubbiamente l’arrivo degli ebrei in massa in Palestina si configura come una invasione immotivata: non si può pretendere di occupare una terra perchè in quella vi abitavano quasi duemila anni prima i propri antenati. Gli Arabi si fermano a questo punto: gli Israeliani sono invasori da ricacciare, gli Arabi hanno ricevuto una ingiustizia storica e la comunità internazionale dovrebbe ristabilire il diritto leso: lo stato di Israele non dovrebbe esistere: punto e basta: questa sarebbe la verità, ultima e definitiva, della questione.

Tuttavia, paradossalmente, lo stesso ragionamento viene fatto dagli Israeliani: lo stato di Israele esiste, è un fatto ormai consolidato: quindi ha diritto ad esistere: la comunità internazionale infatti riconosce questo diritto.
A questo contrapposizione di base seguono un serie di altre posizioni che sembrano, e sono, ambedue sostenibili.
Vediamone alcune a livello esemplificativo e non esaustivo.

Lo stato di Israele è nato da un atto di forza; no, trae la sua legalità da un atto della comunità internazione (da una risoluzione dell’ONU).
Gli Arabi sono stati cacciati dalle terre di Israele: non è vero, sono andati via volontariamente, quelli che sono restati godono di una libertà impensabile negli altri stati arabi
Gli Arabi comunque dovrebbero poter tornare nelle terre di origine: un numero più o meno pari di ebrei sono stati cacciati dagli stati arabi perdendo tutte le loro sostanze: si tratta quindi di uno scambio di popolazioni più o meno alla pari.
Il popolo palestinese è stato spogliato della sua terra: non è mai esistito un popolo palestinese (ne tanto meno uno stato palestinese ) ma solo Arabi che hanno un territorio immenso.

Non si tratta di una disputa territoriale come ad esempio per l’Istria fra l’Italia e Jugoslavia: non ci sono due stati preesistenti che vengono in contrasto per una certo parte del territorio.
Non si può nemmeno invocare il principio della nazionalità degli abitanti come per il Kossovo abitato al 90 % da Albanesi, poichè è proprio la immigrazione ebraica a essere contestata.

Non si può palare di colonialismo, come pure spesso si è fatto: non esiste una madre patria che amministra un territorio lontano storicamente distinto come nel caso dell’ impero coloniale inglese.
Formalmente lo stato d’Israele può considerarsi uno stato "razzista" in quanto accetta come cittadini quelli che appartengono a una certa etnia (legge del ritorno): non ha però i caratteri propri di uno stato razzista come ad esempio il vecchio Sud Africa .

Nemmeno possiamo parlare di stato confessionale: una gran parte dei suoi cittadini non segue affatto la religione tradizionale ebraica .

Si tratta di un caso unico e diremmo irripetibile: irrisolvibile pertanto con le leggi internazionali generalmente riconosciute .



LA VITTORIA IMPOSSIBILE


Un' insieme di fattori rende impossibile la soluzione militare del conflitto. Innanzi tutto non si tratta di due contendenti che lottano da soli ma il mondo intero, in qualche modo, partecipa e rende impossibile a ciascuna della parti una vittoria definitiva.
Nello sconfinato mondo arabo e mussulmano, i Palestinese trovano sempre dei sostenitori per tanti motivi anche vari e contrastanti: un fiume di danaro si riserva sui Palestinesi e con esso un flusso ininterrotto di armi e soprattutto un imponente flusso di benedizioni religiose. di conforti fraterni e appoggi ideologici.

Nel passato il blocco sovietico fece proprio la causa dei Palestinesi nel tentativo di conquistare l’appoggio degli Arabi nel conflitto planetario che li opponeva agli Americani e al mondo capitalistico. Il crollo del comunismo ha privato i Palestinesi di quell’aiuto ma, nel contempo, anche di una certa moderazione che comunque i Sovietici riuscivano a imporre in funzione della loro politica generale.
Le correnti di estrema sinistra, i gruppuscoli residuali ma sempre vivi e attivi del vecchio comunismo vero e puro, hanno ereditato l’appoggio incondizionato ai Palestinesi: essi non hanno alcuna possibilità concreta di intervenire e pur tuttavia lasciano sperare ai Palestinesi che i popoli dell’Occidente siano con loro e quindi anche i governi, prima o dopo abbandonino gli Israeliani .

Gli stati europei hanno una politica molto debole: da una parte sostengono Israele nel suo diritto all’esistenza, dall’altra tuttavia cercano di avere buoni rapporti con i Palestinesi perchè non intendono perdere l’amicizia e soprattutto i buoni rapporti commerciali con gli Arabi in generale. A questo si aggiunge che non esiste una politica estera comune degli stati europei in Medio Oriente come in ogni altro campo, d'altronde, e quindi ogni stato ha una sua politica particolare, spesso in concorrenza con quella del vicino. Tuttavia proprio per questo gli europei vengono visti come i meno schierati : da qui la richiesta ad esempio di truppe di interposizione come in Libano.

I maggiori attori restano però gli Americani, naturalmente, gli unici che hanno effettivamente i mezzi economici e militari per intervenire e che inoltre possono pure influenzare i governi occidentali. Gli Americani sono schierati chiaramente a favore di Israele: pur tuttavia hanno interessi in tutto il Medio Oriente, molti alleati fra gli stati arabi e soprattutto temono una incremento di quelle correnti integraliste che tanto li preoccupano, uno esplodere della situazione delle conseguenze imprevedibili.

Da un parte quindi gli Americani aiutano effettivamente e sostanzialmente gli Israeliani ma d’altra parte sono intervenuti nelle guerre arabo-israliane del 56, del 68 e del 73 per fermare l’avanzata israeliana oltre certi limiti e premono continuamente su Israele perchè la repressione contro i Palestinesi non superi certi limiti.
Dal punto di vista puramente militare, attualmente, Israele potrebbe distruggere la resistenza Palestinese facilmente: potrebbe rispondere al lancio dei razzi Kassam con attacchi aerei devastanti come quelli avvenuti nella Seconda Guerra Mondiale, potrebbe rispondere a ogni attacco suicida con deportazioni di massa e rappresaglie indiscriminate. Ma questo scatenerebbe una reazione araba incontrollabile e non sarebbe permesso dagli Americani, oltre che dalla comunità internazionale.

In pratica gli Americani mettono Israele in grado di resistere agli avversari ma impediscono loro di vincere e nello stesso tempo analogamente si dichiarano contro il terrorismo palestinese ma impediscono che esso sia effettivamente debellato.
D’altra parte anche se gli Arabi un giorno vincessero effettivamente sul piano militare tuttavia la sopravvivenza di Israele sarebbe garantita dagli Occidentali.
In pratica chiunque vinca le battaglie non è importante: perché nessuno può vincere la guerra .
Alla fine di ogni battaglia tutti gridano di aver vinto: in realtà è vero perchè nessuno ha perso veramente.



BATTAGLIE INUTILI


I primi 25 anni di conflitto sono stati caratterizzate da quattro guerre cosi dette tradizionali, con eserciti regolari schierati in ordine in battaglie. Nel 1948 in realtà ci fu anche un intervento della popolazione direttamente, nella seconda guerra del 56 l’intervento anglo-francese impedì che le parti si scontrassero effettivamente: la terza del 67 ( dei Sei Giorni) fu quella decisiva in cui dopo una lunga preparazione, gli Israeliani sconfissero rovinosamente e senza appello tutti gli stati arabi entrati in guerra: la situazione attuale, come è noto, è nata da quella guerra.

Nel 73, nella guerra del Kippur, gli Egiziani riuscirono a sorprendere gli Israeliani a ad ottenere dei successi iniziali: poi ci fu la controffensiva Israeliana che portò l’esercito ad attraversare il canale di Suez ma le operazioni furono bloccate dal’intervento internazionale e quindi ciascuna della parti potè cantare vittoria: gli Israeliani sostengono che avrebbero vinto se non fossero stati fermati, e gli Egiziani che vincevano, fino a che non furono fermati.
Dopo il 73 però l’Egitto trattò una pace separata con Israele e da allora nessun esercito arabo ha mostrato nè la intenzione, nè la capacità di affrontare in campo aperto Israele.

A questo punto ci si sarebbe aspettato che il conflitto fosse terminato: ma questo non avvenne, anzi esso divenne sempre più irrisolvibile.
Infatti la causa palestinese, abbandonato in concreto dagli stati arabi venne ripresa dal FNL che organizzò una resistenza senza limiti di tempo.
Non avendo eserciti adeguati, carri e aerei la Resistenza non poteva che ricorrere al terrorismo; negli anni Settanta e Ottanta questo si diresse su interessi e cittadini Israeliani all’estero coinvolgendo comunque le nazioni occidentali considerate oggettivamente alleate di Israele.

In Giordania, in Libano sorsero conflitti sanguinosi con altri arabi. Israele invase ripetutamente il Libano senza riuscire comunque a stroncare la resistenza palestinese. All’indomani della Prima Guerra del Golfo sembravano che ci si fosse finalmente avviati finalmente a una pace di compromesso con gli accordi di Campo David ma, dopo il loro fallimento, la situazione si fece ancora più difficile.
Abbiamo avuto cosi la cosi detta “seconda intifada” che è sfociata in realtà in una lunga serie di attentati, soprattutto suicidi, che hanno colpito indiscriminatamente la popolazione israeliana, una ennesima invasione del Libano, la spaccatura all’interno degli stessi palestinesi sfociata in una specie di divisione in due territori, Gaza e West Bank, ciascuna delle quali governata da opposte fazioni.

Tuttavia è chiaro che gli attentati, sia quelli del passato che quelli recenti o il lancio di missili Kassam non possono sconfiggere gli Israeliani: certo gli ebrei non andranno via dalla Palestina per questo: la pratica del terrorismo può essere utile per indurre uno stato a ritirarsi da territori che non rappresentano un interesse vitale, come ad esempio può essere avvenuto in Viet-nam e in Afganistan ma certamente non costringerà mai gli Ebrei a evacuare la Palestina.
Si tratta quindi una tattica che mantiene vivo il conflitto ma che non porta certamente alla vittoria.

Ma anche gli Israeliani non riescono, dopo oltre trenta anni, a vincere la loro lotta contro il terrorismo.
Israele risponde in modo violento e deciso per dimostrare che comunque il terrorismo non paga, che non può ottenere la vittoria e che la conseguenza dei loro atti è soprattutto quella di infliggere maggiore sofferenze proprio a quei Palestinesi che esso proclama di voler difendere .
Invade cosi il Libano, di fronte alla “seconda intifada” ha stretto in una morsa la popolazione palestinese, a Gaza opera una specie di assedio lesinando i rifornimenti.
Si vuole che i Palestinesi si convincano della dannosità del terrorismo, che abbandonino la guerra contro Israele e ne accettino la esistenza. Ma occorre esaminare se effettivamente tale politica possa raggiunge gli scopi prefissi.

La Palestina (come anche il Libano), in realtà, non è una entità con un governo autorevole e responsabile, in grado di governare e imporre effettivamente la propria volontà. La popolazione, la gente comune non è in grado, anche se lo volesse, di impedire atti di terrorismo. Viene quindi punita per qualcosa che non è in grado di impedire. L’effetto sperato dagli Israeliani è che alla fine essi si rendano conto che l’unico modo per uscire da questa angosciosa situazione è quella di combattere essi stessi il terrorismo e i terroristi.
Ma in realtà questa reazione psicologica non avviene affatto.

Infatti il palestinese oppresso, in miseria, che vede morire i suoi figli non addossa affatto la colpa ai “terroristi” ma agli Israeliani: non considera affatto l’azione israeliana come effetto di quella dei “terroristi” ma anzi fa il collegamento inverso: l’azione terroristica è vista come vendetta di quanto ha subito. Non è l’attentato suicida o il lancio di Kassam che ha causato l’attacco di Israele ma, al contrario, essi sono la reazione all’attacco israeliano. La politica israeliana finisce con il raggiungere il risultato opposto a quello sperato.
Ambedue quindi le tattiche, il terrorismo e la rappresaglia, non conseguono risultati ma è anche vero che le parti non hanno alternative da un punto di vista militare.

Un effetto insolito di questa guerra è l’inversione del fenomeno della conta delle vittime: nelle guerre, in generale, si gonfiano le cifre dei caduti del nemico e si minimizzano le proprie : i Palestinesi invece, al contrario, enfatizzano le proprie perdite: ogni caduto palestinese sembra essere una vittoria perche esalta sempre più il furore e l’odio dei Palestinesi e la commozione presso l’opinione pubblica internazionale.



L’OGGETTO DEL CONTENDERE


Se consideriamo in se l’oggetto della contesa sulla Palestina in realtà noi ci troviamo di fronte a un fatto abbastanza limitato: Il territorio di Israele è di circa 20.000 Km2 : considerando che per circa la metà si tratta del deserto del Negev praticamente si tratta di un territorio che più o meno equivale a quello di una nostra regione di media grandezza, come le Marche per fare un esempio.
I profughi arabi che furono costretti ad emigrare furono intorno ai 700 mila. diciamo più o meno il doppio di quelli italiani dall’Istria: per altro non esisteva al momento della costituzione di Israele uno stato arabo.

Furono probabilmente queste considerazioni che nel 1947 spinsero sia gli stati occidentali che quelli del blocco sovietico a riconoscere all’ONU la formazione di Israele. Potè sembrare al momento una questione in fondo marginale rispetto ai grandi sconvolgimenti che la II Guerra Mondiale aveva portato: si pensi che i profughi furono decine di milioni , che interi stati vennero ridefiniti, che regioni da sempre parti di uno stato entrarono nei confini di altri stati.
Assegnare a un popolo senza terra che aveva subito la più terribile persecuzione mai avvenuta nella storia una piccola striscia di territorio sembrò un fatto, diremmo, di ordinaria amministrazione, una crisi che sarebbe presto rientrata, senza troppe conseguenze.

In realtà tutti gli sconvolgimenti territoriali sono stati accettati, decine di milioni di profughi assorbiti, anche gli immensi imperi coloniali europei si sono dissolti senza troppo gravi drammi ma la questione palestinese rimane lì, irrisolta e sempre più irrisolvibile, è divenuta nel tempo una specie di focolaio da cui scaturiscono crisi su crisi che minacciano la stabilità non solo del Medio Oriente ma anche di tutto il mondo.

Dal punto di vista israeliano è evidente che essi non possono lasciare quel territorio e tornare nelle patrie di origine: sono costretti dalle circostanze a lottare strenuamente per difendersi: circondati dall’ostilità implacabile di uno sconfinato mare di genti nemiche hanno come priorità assoluta, più di ogni altro popolo, la difesa.

Da parte araba le motivazioni di una implacabile ostinazioni sono molto più complesse. Innanzi tutto bisogna considerare l’orgoglio o meglio la frustrazione degli arabi.
Da secoli gli Arabi vengono regolarmente sconfitti in campo aperto dagli Occidentali con irrisoria facilità.

L’ultima volta che un esercito mussulmano è riuscito a contrastare uno europeo è stato sotto le mura di Vienna nel 1683: poi è stato tutto un susseguirsi di disfatte umilianti: dalla spedizione di Napoleone in Egitto che con poche migliaia di soldati debellò l’aristocrazia dei Mammellucchi che detenevano da 400 anni il potere in Egitto, alla battaglia Navarrino in cui la flotta araba fu affondata tutta dalle navi europee, alla battaglia di Khartum in cui i dervisci caddero in massa di fronte alle truppe inglesi, fino alla Guerre del Golfo in cui la madre di tutte le battaglie si è trasformata nella madre di tutte le sconfitte: per due volte un esercito americano ha disfatto completamente uno iracheno praticamente senza avere perdite.

La questione palestinese diviene allora un fatto simbolico: se un piccolo stato tiene in scacco l’intero mondo arabo vuol dire che in effetti esso è solo la espressione di un complotto a livello mondiale contro la rinascita del mondo arabo: la lotta contro Israele non è quella per recuperare un piccola fetta di territorio ma quella di liberarsi dal dominio delle potenze occidentali che vorrebbero mantenere il loro dominio nella regione.



Il CONFLITTO RELIGIOSO


Negli ultimi decenni, dopo il fallimento delle politiche modernizzatrici dei governi arabi, il fondamentalismo islamico ha ripreso forte vigore: la Questione Palestinese è divenuta un questione religiosa: bisogna liberare al Qoods ( la “santa” come viene chiamata Gerusalemme). Il luogo sacro dal quale Muhammed volò in cielo, come una prima necessaria tappa di un risveglio generale della Umma (comunità dei fedeli in Allah) che deve purificarsi dalle influenze occidentali (cioè degli infedeli) per riprendere il suo glorioso cammino di conquista del mondo alla vera fede in Dio.

Si comprende che posto in questi termini la questione palestinese diviene irrisolvibile: ogni compromesso diventa un ignobile e sacrilego tradimento.
La Palestina assume per il mondo islamico lo stesso valore che essa aveva per l’Europa medioevale: tutta la cristianità concordava nella necessita di liberare il Santo Sepolcro: ogni imperatore, re e principe dichiarava che il suo scopo supremo era di partire per la crociata: combatterla effettivamente poi era altra cosa.
Perfino Carlo VIII, nell’invadere il regno di Napoli nel 1495, si giustificò con la pretesa che fosse solo il primo passo per la riconquista dei Luoghi Santi.
Analogamente nell’ambito islamico ogni rais, ogni leader piccolo e grande, ogni capo di banda terroristica mette avanti il problema palestinese per crearsi una facile popolarità perché tutto il modo arabo, in un modo o nell’altro, sente quella questione come una ferita aperta che non si rimargina.
In realtà, concretamente, nessun paese arabo, dopo la pace separata dell’Egitto, ha mai affrontato Israele e non pare che ne abbia la minima intenzione o possibilità: tuttavia si può giustificare qualunque azione dichiarando che la propria meta finale è sempre la distruzione di Israele.

Dal punto di vista israeliano abbiamo un processo speculare simile. Un problema fondamentale per il conseguimento della pace è la presenza delle così dette colonie nei territori occupati: in realtà dal punto di vista politico ed economico non si vede nessuna necessità della loro esistenza. Le “colonie” creano una situazione insostenibile: per difendere questi insediamenti occorre militarizzare tutto il territorio, costringere i palestinese in situazione simili a grandi campi di concentramento, sono soprattutto una ipoteca irrisolvibile sulla formazione di uno stato autonomo palestinese.
La loro giustificazione però è di carattere religioso: infatti i fondamentalisti religiosi ebraici sono la quasi totalità dei loro abitanti. Si parte anche qui da una pretesa promessa che Dio avrebbe fatto agli Ebrei di dare ad essi la terra dove “scorre latte e miele”, per sempre.

I territori "occupati", quindi, appartengono a Israele per diritto divino: si concede al massimo che gli Arabi possono anche abitarci ma le terre appartengono agli Ebrei. Gli ebrei che credono fermamente in questo diritto divino si trasferiscono incuranti di ogni pericolo, di ogni difficoltà come coloro che credono di fare la volontà di Dio che va seguita a costo di ogni sacrificio.

Due fedi fra di loro inconciliabili vengono in urto: non è possibile nessuna mediazione perchè ogni mediazione significherebbe venire meno alla propria fede.
Il problema politico è divenuto un problema metafisico.



DOMANDE SENZA RISPOSTE


Come prima abbiamo notato, a un osservatore esterno e imparziale le linee della pace sono evidenti e irrefutabili: non importa niente come si possano assegnare torti e ragioni: l’unica soluzione è la divisione della Palestina in due stati, sovrani e indipendenti. La comunità internazionale, l’opinione pubblica mondiale fa una sola domanda veramente importante a Palestinesi e Israeliani.
Ai primi chiedono se vogliono riconoscere realmente e definitivamente lo stato di Israele, e quindi che la fine dell’occupazione israeliana NON sia solo il primo passo per la distruzione di Israele stessa.

Ai secondi, chiede se essi vogliono effettivamente la costituzione di uno stato palestinese e quindi sono disposti a smantellare le colonie nella West Bank che, di fatto, lo impediscono
Ma la risposta che ottengono è equivoca.

Innanzitutto i pareri si dividono in ciascun campo: Se HAMAS continua a mantenere nel suo programma la cancellazione pura e semplice di Israele, Abi Mazen e al fatah (una parte, almeno) riconosce il diritto ad esistere ad Israele.
Nel campo israeliano una parte pare decisa a promuovere la nascita di una Palestina indipendente ma un’altra parte sostiene strenuamente gli insediamenti, il diritto ad abitare in quei territori e non si sognerebbe mai di viverci sotto la autorità araba (come fanno invece gli Arabi di Israele).
I moderati di ciascuno delle parti poi temono che nel campo opposto prevalgano gli estremisti, che non ci si possa fidare dei moderati stessi.
Ciascuna della parti poi, sia arabi che israeliani hanno specifici problemi ad accettare la pace di compromesso.

Gli israeliani pensano che non possono fidarsi dei Palestinesi: quanto anche questi solennemente si impegnassero a riconoscere Israele chi potrebbe poi garantire che in uno stato indipendente di Palestina non prevalessero poi gli elementi più estremisti che disconoscerebbero proprio quegli impegni. Israele è una piccola nazione che esiste solo per la forza delle proprie armi: e su quella forza basa la sua sicurezza.

I Palestinesi hanno anche essi problemi specifici: i loro dirigenti hanno promesso che avrebbero spazzato via gli Israeliani: quel popolo vi ha creduto, fermamente creduto si è sacrificato e continua a sacrificarsi oltre ogni ragionevole limite, generazione dopo generazione, nella speranza indistruttibile che alla fine essi prevarranno che Israele sparirà come un brutto sogno. Da tre generazione ogni palestinese apprende questa verità suprema fin dalla tenera età e vive per quel giorno, il giorno della vittoria che è certa e indubitabile, che Dio stesso non negherà certo ai suoi fedeli.

Dire ad essi che invece bisogna fare la pace con Israele significa in sostanza dire che tre generazioni si sono sacrificate inutilmente, che tutto è stato vano perchè in effetti debbono accontentarsi di quello che hanno sempre rifiutato, anzi di molto di meno. Se avessero accettato la spartizione decisa dall’ONU Israele sarebbe una piccola enclave senza importanza, se avessero accettato il risultato della guerra dei Sei Giorni e avessero riconosciuto Israele avrebbero un loro stato da 40 anni senza gli insediamenti ebraici: non è facile riconoscere che ci si è sbagliato, che una immensa infinta mole di sacrifici e sofferenza è stata inutile.
Avviene allora che chi mostra ai Palestinesi l’unica strada per uscire dalla situazione di incubo in cui si trovano venga considerato un traditore, un responsabile di quella situazione e chi invece, come Hamas, al contrario prolunga indefinitivamente quella situazione senza mostrare alcuna via di uscita effettivamente percorribile, divenga popolare: non propone nessuna soluzione che non sia la semplice continuazione di un calvario infinito che dura da tre generazioni: che importa, Dio provvederà, Allah Akbar ( Dio è grande) , inch’Allah ( come vuole Dio ).



PROSPETTIVE


Ci si domanda allora quale possa essere la soluzione del conflitto. In realtà tutti hanno un piano di di soluzione perché, come abbiamo ripetutamente notato, la soluzione è ben nota , unica e obbligata: il problema è come arrivarci .

Se gli Israeliani pongono come presupposto dei negoziati la cessazione di ogni atto di terrorismo, quelli che non vogliono il negoziato lo faranno immediatamente fallire con un attentato: vi saranno sempre dei gruppi contrari al negoziato e i moderati (le autorità) non sono in grado di controllarli.
Occorrerebbe invece che la cessazione del terrorismo fosse posta come fine del negoziato, non come presupposto. Se effettivamente si costituisse uno stato palestinese con un governo effettivamente in grado di governare e controllare il territorio allora sarebbe nella logica delle cose che assumesse anche la responsabilità dei propri cittadini. Esso potrebbe effettivamente e autorevolmente controllare il terrorismo.
D‘altra parte se la situazione umana degli abitanti migliorasse sensibilmente certamente il prestigio del governo moderato crescerebbe e diminuirebbe in parallelo quello degli estremisti.
In altri termini se il palestinese comune vedesse la sua vita migliorare realmente con la pace diventerebbe favorevole alla pace stessa (cioè agli accordi con gli Israeliani) ma fino a che egli si sentirà oppresso e attaccato dagli Israeliani non crederà mai che la pace con essi potrebbe portare qualcosa di buono.

La strada del negoziato a oltranza richiederebbe coraggio e determinazione da parte di Israele ma sarebbe l’unica risolutrice del conflitto, più che di qualunque inconcludente vittoria militare. Ma richiederebbe coraggio soprattutto volontà di pace: e non tutti gli Israeliani vogliono effettivamente la pace. Non bisogna dimenticare che anche una parte non trascurabile degli Israeliani non accetta affatto la costituzione di uno stato palestinese e ritiene che tutta la Palestina spetti comunque agli ebrei per diritto divino: i radicali non sono solo fra gli arabi.
Israele è profondamente convinta di avere una superiorità militare e che su essa debba poggiare la propria sicurezza: la sua posizione di forza la rende abbastanza tiepida nei negoziati che dovrebbero interessare di più i Palestinesi: e come se dicessero: queste sono le nostre condizioni: se non le accettate, peggio per voi.

Bisognerebbe però rendersi conto da parte Israeliana che essi costituiscono solo un piccolo staterello di pochi milioni di abitanti e hanno di fronte un mondo arabo mussulmano sconfinato. La prevalenza militare israeliana è un fatto contingente che non può durare all’infinito. La Cina con lo sviluppo economico sta diventando una grande potenza, l’India segue a ruota, il mondo arabo invece resta ancora nel sottosviluppo e soprattutto nel disordine e nelle faide interne.
Ma un giorno potrà pur accadere eche  esso finalmente segua le strade del risveglio, come la Cina e l 'India: allora in quel momento, se Israele sarà ancor un nemico, sarà spazzata via: meglio allora arrivare alla pace ora, quando è ancora possibile.

 

Prof. Giovanni De Sio Cesari

( www.giovannidesio.it

Francomputer 
Pluralisticamente accettiamo altre tesi. Non per partito preso o per attribuire torti o ragioni 
ma perchè è giusto cercare di capire

VARIE IN TABELLONE ISRAELE

IL MAR ROSSO, SUEZ, E GLI INGLESI - UNA LUNGA STORIA

ANTECEDENTI: SUL NASCENTE STATO D'ISRAELE

1947 IL PIANO ONU DI SPARTIZIONE - 1948 LA NASCITA DELLO STATO

LA GUERRA DEL 1956 ("DI SUEZ")

LA GUERRA DEL 1967 ("DEL SINAI")

LA GUERRA DEL 1973 ("DEL KIPPUR")


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