Pubblicato da res publica : quaderni europei aprile 2015
Mercato e stato sociale
Giovanni De Sio Cesari
Mercato
Nel secolo scorso, il comunismo reale è fallito clamorosamente e irrimediabilmente in tutte le sue versioni: da quella sovietica a quella cinese, a quella del sud-est asiatico e a quella albanese. Tuttavia, non possiamo dire che il capitalismo abbia vinto: quello che invece si è affermato nei paesi occidentali e in quelli più prosperi del resto del mondo (soprattutto in Estremo Oriente) è stato un modello che potremmo definire "stato sociale". In esso, più del 40% del PIL prelevato con le tasse viene gestito dallo Stato in modo che il dare e il ricevere siano commisurati al reddito. In fondo è la realizzazione del marxiano “dare per quanto si può e ricevere per quanto si ha bisogno”, ma il dare non è spontaneo bensì per imposizione fiscale.
Inoltre, lo Stato gestisce grandi imprese a livello privatistico e regolamenta in modo capillare con una pletora di norme (forse troppe) tutto il processo della produzione, in modo particolare assicurando i diritti dei più deboli economicamente. Garantisce almeno in linea di massima le pensioni, l’assistenza sanitaria, la scuola e molte altre provvidenze che sarebbe lungo elencare.
Marx interpretava il mondo di 150 anni fa; sarebbe assurdo se sostenesse le stesse cose in un mondo così diverso da quello del suo tempo. È come se dicessimo che Aristotele ora sostenesse ancora il geocentrismo. Tutto ciò è stato possibile per lo sviluppo economico innescato e promosso dalla libera iniziativa, sulla necessità della quale nessuno dubita più.
Limiti
Certo, nulla è perfetto, tanto meno il mercato. L’impresa è il motore dello sviluppo economico, ma deve essere guidata altrimenti si autodistrugge: i motori non hanno intelligenza, sono meccanismi che hanno bisogno di guida. In tale contesto, il liberismo economico è contemperato da un forte intervento statale. Il discorso politico di oggi verte sul rapporto fra libertà economica e intervento dello Stato (meglio: della collettività) e non più sull'alternativa fra capitalismo e comunismo, che entrambi non esistono più.
Notiamo che, in linea generale, se ciascuno di noi, agendo a proprio piacimento e criterio, creasse progresso e benessere, allora non ci sarebbe bisogno di Stato, di leggi, di codice stradale, di norme, di autorità e così via, insomma della società. Saremmo come negli alveari in cui ciascuna ape fa quello che deve fare e così tutto è perfetto. L’uomo è animale sociale: la collettività (di cui lo Stato è solo una delle tante espressioni) vive nelle regole che la collettività stessa produce: perché mai l'economia dovrebbe fare eccezione?
E infatti non esiste nessuna società che non regoli l'attività economica: quello che è in discussione è la misura e i modi. Quindi possiamo discutere di quali norme occorrono e in quali limiti, non se le norme siano necessarie. Come dicevamo, quello che è in discussione è il rapporto, l’equilibrio, il compromesso (diciamo come volete) fra l’uno e l’altro, e questo dipende dal contesto, dalla situazione concreta e specifica. In certi casi, ad esempio, sarà opportuno che la collettività intervenga nel gestire i mezzi pubblici, la concorrenza, i monopoli, i prezzi, i salari e così via, e in altri invece sarà dannoso: non se ne può parlare così in astratto.
Ricchi e poveri
Nel nostro mondo, gli interessi delle grandi imprese e delle masse convergono: le prime prosperano solo se vi sono i secondi a comprare. Ma questo pare incomprensibile a quelli che sono rimasti al mondo di 150 anni fa, al quale si riferiva Marx. Contrariamente a come avveniva un tempo (della proprietà fondiaria), la ricchezza di alcuni non poggia più sulla povertà degli altri perché siamo in grado di produrre più di quanto poi effettivamente possiamo consumare. Basta vedere che i paesi in cui vi è libera iniziativa sono quelli in cui il benessere delle masse e non solo dei capitalisti è il più alto.
Le industrie, allora, hanno tutto l’interesse che ci siano acquirenti per i propri prodotti: se si diffonde la povertà questi diminuiscono sempre di più. Anche a livello internazionale si può esportare nei paesi ricchi, non in quelli poveri. Infatti, le nostre esportazioni più importanti vanno verso Germania, America e ben poco verso Angola e Gabon. A nessuno piace pagare le tasse, ma senza di esse non solo non ci sarebbe una giusta ridistribuzione del reddito, ma in mancanza di compratori non ci sarebbe nemmeno la produzione. E paradossalmente, se i ricchi pagassero meno tasse sarebbero meno ricchi. Proprio in base alla crisi di sovrapproduzione, Marx 150 anni fa prevedeva la fine del capitalismo: aveva ragione. In realtà, il capitalismo dell’800 non esiste più perché è stato sostituito da quello che abbiamo definito stato sociale.
Interventi Stato
È vero però che non è che possiamo imporre per legge alti salari e provvidenze; altrimenti basterebbe fare delle leggi per rendere tutti prosperi: sarebbe così facile. Occorrono le risorse: ad esempio, l’adeguamento dei salari alle reali possibilità della produttività non è automatico: senza la contrattazione collettiva, a cui viene poi dato valore legale, sarebbe difficile che l’imprenditore li aumentasse spontaneamente.
È vero che i compensi vengono regolati dal mercato dalla legge della domanda-offerta, ma se l’imprenditore vuole un cantante famoso deve pagarlo molto, mentre un semplice elettricista (o bracciante, o autista) lo trova anche a un prezzo irrisorio se la contrattazione è libera. In pratica, la contrattazione e quindi lo Stato proteggono i più poveri, come è nella natura della collettività. Si tenga presente che in regime di libera concorrenza l’aumento dei salari non diminuisce il profitto delle aziende ma si riversa sul prezzo del prodotto: è per questo che i prodotti cinesi costano una piccola parte di quelli nostri. È infantile pensare che la diminuzione dei salari corrisponda automaticamente all’aumento dei profitti aziendali.
Solidarietà
Occorre distinguere due concetti che mi paiono molto diversi: le esigenze economiche e la solidarietà. È proprio dell'attività economica che tutti siano egoisti: imprenditori, lavoratori e compratori; poi esiste anche l'altruismo, la solidarietà in altri momenti. La solidarietà, una volta si diceva beneficenza, è un'altra cosa: dipende dalla sensibilità personale. C’è chi pensa solo al proprio interesse e chi invece prova empatia verso i meno fortunati. Fanno beneficenza, non tutti ma alcuni, i poveri, i benestanti, i ricchissimi, ciascuno nella misura in cui possono ovviamente: poco i poveri, di più i benestanti, moltissimo i ricchissimi.
Teniamo conto pure che gli affamati del terzo mondo vengono sfamati dai nostri aiuti: perfino Gaza vive quasi esclusivamente sui nostri aiuti. Sarebbe un errore pensare che la solidarietà sia un'esclusiva dei ricchi, dei poveri o del ceto medio: siamo tutti uomini e tutti abbiamo vizi e virtù degli uomini. Bisogna cioè tener conto che l’uomo agisce per il proprio interesse personale ma segue pure limiti stabiliti dalla collettività, e le più importanti di esse spesso non sono nemmeno codificate. I collettivismi economici sono tutti falliti nella storia, dalla repubblica di Platone alle eresie pauperistiche medioevali al comunismo del secolo scorso, perché si basavano, come diceva Marx, sull’idea che l’uomo, liberato dalle catene dell’egoismo, dà per quanto può e riceve per quanto ha bisogno. Non è così: l’uomo per natura fa i propri interessi.
Ma anche il capitalismo dei tempi di Marx è sparito, sostituito dallo stato sociale. Possiamo avere una maggiore propensione per l’intervento collettivo e per la libertà imprenditoriale, ma negare una delle due è fuori della realtà.